Ci sono delle bandierine rosse che appicco mentalmente (un po’ come Emilio Fede qualche anno fa con le elezioni politiche e la cartina dell’Italia, ricordate?) ogni volta non solo che riesco a portare a termine un lavoro, un’incombenza, un rituale, in autonomia; ma ogni qualvolta riesco a fare le stesse cose – esempio partecipare a eventi – che facevo l’anno precedente. Azioni non più scontate da anni e che ogni anno diventano una sfida maggiore, perché la progressione non è che se ne stia ferma. Ogni anno la mia disabilità è maggiore come sintomi e affaticamento, e non posso sapere quanto mi darà noia, quanto mi complicherà le cose, quando mi farà stare a casa, e punto. Una di quelle bandierine rosse, ostinandomi a vivere la mia città e le mie vecchie passioni, è il Festival Internazionale del Giornalismo.

Nella seconda sera della cinque-giorni internazionale diluviava come se non ci fosse un domani. Ero senza Stefano, e la mia assistente più di tanto, contro il diluvio battente e a vento, non poteva. In carrozzina, se il meteo dice male, diventa tutto più complicato: pensate solo a risalire la nostra acropoli, entrare col pass in luoghi tabù, alla ‘Blues Brothers’ (mi aspetto l’altolà armato, prima o poi), accordarsi coi vigili – bontà loro – per farmi scaricare più vicino possibile ai palazzi, non bagnare troppo la carrozza, perché poi non è che ti alzi e l’asciughi; fare sul bagnato i passaggi e le manovre; entrare dal retro della sala su una rampa in discesa, l’assistente dietro che cerca di frenarmi (“stai frenando tu, vero, Laura?…”) mentre le mani scivolano sui corrimano bagnati. Arrivo, mi siedo o meglio ‘vengo seduta’, devo calcolare quanto mi manca per il bagno, non ricordo poi se il bagno lì ha le scale… Ogni gesto che per chiunque è immediato, scontato, per noi richiede una programmazione maniacale (un po’ alla Furio e Magda in ‘Bianco rosso e Verdone’, vi ricordate? Leggi anche Il ruotino e l’ossessione del controllo).

Quella sera riesco ad arrivare in orario in Sala Notari con la carrozza ridotta come sotto un autolavaggio, lì mi sistemano i ragazzi dello staff. Si ricordavano dall’anno scorso che ho bisogno di un posto normale, perché lo schienale della carrozzina mi fa male. Come faceva Valentina a ricordarsi del mio schienale e della mia schiena? Lei e tutti i ragazzi, ancora giovani e “allevati” dalla fondatrice del festival Arianna Ciccone, devono relazionarsi in 5 giorni serrati con oltre 500 speaker più migliaia di ospiti, variegatissimi per età e provenienza. Per cui o la loro attenzione verso di me è fuori dal comune, o siamo proprio pochissimi, disabili, ad andare al Festival. Un misto di entrambe, mi sa. Insomma quella sera io ero lì. Non volevo rinunciare a Lirio Abbate (nelle foto) e al suo monologo sul caso Ilaria Alpi – Milan Hrovatin. Ce l’ho fatta alla fine, ho messo la bandierina. Anche quest’anno alla fine sarò riuscita ad esserci in vari giorni e appuntamenti, pure pochi rispetto a quelli che vorrei e nonostante il cambiamento, tanto grande, che fatico quasi a percepirlo.

Molti anni fa infatti, faticando appena poco, il festival me lo facevo tutto a piedi, solo a un certo punto cedendo al bastone. Poi è arrivato il deambulatore, e certe sale del festival sono diventate off limits, ma con qualche aiuto robusto son riuscita comunque a godermi incontri e conoscenze inediti, superando fra l’altro l’imbarazzo degli ausili. Anni fa seguivo eventi a tutte le ore, lavoro permettendo; oggi la bastarda ‘fatica centrale’ mi fa rialzare dal letto ogni giorno alle 17.30 almeno. Quando la fatica non picchiava così dolorosamente, mi seguivo gli eventi dell’#ijf in streaming, a letto. Oggi, le ore in cui smaltisco la fatica a letto c’è solo silenzio e penombra: la testa fa troppo male per seguire alcunchè, e care dirette streaming del pomeriggio, ciao.

Sempre Arianna Ciccone (nella foto), che pur avendo costruito negli anni un evento internazionale non rinuncia al cazzeggio e a divertirsi, quella sera mi ha fatto uno scherzo con Lirio Abbate in persona, già in sala per le prove (da disabile mi trovo spesso a entrare in sala prima dell’apertura). Le foto del siparietto ho voluto condividerle sui social il giorno dopo, anche se stavo a letto (erano giusto giusto le ore della fatica). Guarda un po’, il vicedirettore de L’Espresso mi risponde, qualche scambio di tweet fra noi. Emozione, sorpresa, anche privilegio: io però in quegli stessi attimi, lo smartphone accanto, stavo decidendo come alzarmi dal letto e tornare seduta, come riattivare piedi e gambe senza cadere sul pavimento, come mettermi un presidio per superare le ore fuori di casa senza bagno; come lavarmi da solae task finale complessissimo, come riuscire a infilarmi da sola la tuta con la spasticità che mi era tornata a mille. Tutto ciò mentre twittavo con Lirio Abbate. Davvero surreale. Che mondo di possibilità e al contempo però, quanta distanza reale.

Al di là di quanto cambino le cose nel tempo, di quanto il corpo e la malattia tengano ancorati al reale e all’urgenza fisica, a dispetto del ‘sentirsi connessi’ e del partecipare; di quanto partecipare fisicamente costi fatica, con la malattia che va avanti, al Festival di quest’anno io ero ancora lì. Bandierina messa. Grazie ad Arianna, al suo staff sensibile, alla mia ‘tigna’? A un po’ di tutto insieme.