Ah ah Laura, adesso vediamo chi è disabile“. Le parole di un mio ex capo, anni fa, quando lavoravo come addetta stampa in un ente non profit. Un tipo ironico, disincantato. E cieco totale. Blackout in ufficio, sono le sette di sera d’inverno, è improvvisamente buio totale, io e la collega, che stavamo per alzarci, ci inciampiamo addosso. Ma mentre noi annaspiamo, lui si alza, indossa la giacca, prende le chiavi, sistema tutto al volo e spedito ci accompagna, lui sì ora disinvolto, verso l’uscita.

Quando penso a come un disabile, qualsiasi disabile, viva la pandemia da coronavirus, mi viene sempre in mente quell’episodio: guarda un po’ come ti ribalta i ruoli uno scenario stravolto, e vedi chi è il disabile, adesso. Questi mesi di emergenza da Covid, con la quarantena, la vita sospesa, adesso la fase 2 e il “niente sarà più come prima“, sono un film già visto.

Esco finalmente fuori dai 200 metri attorno casa, torno accompagnata in centro storico, il giorno che si allunga, le persone, i bar, le scalinate, la piazza, ma stanno tutti, immancabilmente, a parlare di quello. Sembra quasi che siano usciti da una brutta influenza, di quelle che ti lasciano sotto un treno: tanta voglia di normalità, ma le cose non sono più le stesse. Faccio le mie vasche soltanto spinta, le gambe legate con la fascia altrimenti gli spasmi le fanno saltare come stoccafissi, lo schienale che dà fastidio alla schiena, la vescica che deve reggermi fino a casa… Ma penso, questa per me, è comunque già un’uscita fantastica! Io e l’assistente divaghiamo nelle chiacchiere ma le orecchie cadono sempre là, ai discorsi dei passanti a fianco, frastornati, polemici. Un giorno per loro, forse, le cose torneranno alla normalità, ma adesso è un periodo del cavolo. Per me, questa è già, e sempre resterà, la “normalità”.

C’è una dimensione di tragedia collettiva  su cui non si può discutere. Ma la quotidianità terremotata… Su quello sono esperta. La paura della malattia, la solitudine, il lutto (comunque lo si intenda), la perdita, la routine feroce, i riferimenti che crollano. L’identità stravolta. La sofferenza del dover giocoforza accettare. Il tempo e lo spazio che si contraggono o si dilatano all’infinito, doverti attrezzare urgentemente, qui, ora, se no sei fottuto, e questo tutti i momenti, ovunque e con chiunque. La paura – attenzione, non ansia, non depressione: paura! Stringente, immediata – sempre. Il gesto più elementare, complicato e stravolto. L’esclusione sociale (altro che distanziamento). Non uscire quasi più di casa, o soltanto con l'”autocertificazione” di qualche assistente preavvisato per tempo e pagato (sempre che sia disponibile). La scomparsa definitiva delle attività, dei luoghi che vivevi sentivi e toccavi. Chiedere, incessantemente, aiuto, e non è affatto detto che possa arrivare. Non poter esigere una cura o un diritto. Non avere una risoluzione nè una compensazione a ciò. Mi guardo intorno nella mia passeggiata tranquilla e penso, allora io sono temprata e forte molto più della media, siamo, temprati e forti più della media, i disabili da sempre abituati a ‘sopravvivere’. La mia fragilità oggi si rivela forza, quel “buio” abituale in cui ci muoviamo. “Come sta Laura? Beh, lei in quarantena ci sta sempre” è la risposta di Ste agli amici.

Poi però si supera la quotidianità stretta, e no, che non è la stessa cosa. Una fragilità può sembrare forza quando la routine si stravolge, ma diventa fragilità doppia se si amplia lo sguardo: non solo la maggiore vulnerabilità fisica ma il carico più pesante di caregiver e assistenti (chi ha la fortuna di poterci contare), il tempo di vita ‘espropriato’ e non più recuperabile per chi ha una disabilità progressiva, il venir meno del follow up sanitario, la difficoltà moltiplicata nel seguire le regole di sicurezza, l’isolamento – se possibile – ancora maggiore, le prospettive di giocarsi carte alternative in futuro, ridotte all’osso. A fragilità si somma fragilità, per la persona e per il suo contesto. In più il panico collettivo, che anziché “renderci migliori” come vorrebbe la narrazione retorica, aumenta l’egoismo e l’indisponibilità all’ascolto, cosa che tutti i fragili, i diversi, i precari, i non protetti, gli “ultimi”, già sperimentano fin troppo in tempi normali.

Da persona temprata al buio ho la percezione di un panico pervasivo – altro “nemico invisibile”, i cui effetti però lo saranno, eccome – che più fragili ci rende tutti quanti, al di là della singola perdita di ognuno. Io con la mia disabilità, inascoltata, poco rappresentata etc., ormai me la so giocare ed è un buio ‘familiare’, ben noto. Ma se è tutto il mondo là fuori a traballare dalle fondamenta, tutta la comunità, mi è molto più difficile intravedere una luce. Sarò anche temprata, ma il blackout è totale. E mi manca quel simpatico esperto che ci guida all’uscita.