Che cos’è la riabilitazione intensiva l’ho scoperto solo nel 2014. Avevo già fatto cicli ambulatoriali, da anni; ma nel 2014 vissi l’inizio del lungo passaggio dalla forma ‘a ricadute’ alla forma progressiva. Quel passaggio temutissimo da tutti, che se ti dice fortuna non capita mai, ma se capita, sono cavoli. Venivo da un ricaduta violenta che non passava, monoparesi della gamba destra. Mi avevano fatto dosi massicce di cortisone nella speranza che funzionasse, ma la gamba non ne voleva sapere di muoversi e il piede non ne voleva sapere di alzarsi. Entrai all’istituto Prosperius di Umbertide con la valigia in mano e la prospettiva di 40 giorni di degenza per riabilitazione intensiva. Attraversai l’ingresso col fare stizzito del “sì va be’ ma durerà poco ‘sta roba”. La mattina dopo ero al lavoro. Il mio piano andava dalle 9 alle 16 e si articolava in terapia manuale, occupazionale, robotica, elettrostimolazione funzionale, altra terapia manuale. Roba quasi da marines per come sto oggi, ma allora era commisurato sul mio livello.

Il Lokomat, in particolare: gioiello avveniristico della robotica con cui il Prosperius fu pioniere. Per una persona con lesioni midollari incomplete – è il caso della SM – che comincia a camminare a fatica, l’esoscheletro che ti libera dalla gravità e ti consente di camminare collegato a un avatar su monitor e a un quadro comandi per misurare le tue prestazioni, è un’esperienza incredibile. Scendi dal Lokomat – o meglio, ti smontano alacremente i fisioterapisti – e voli. Sciolta, leggera, fluida. Non capisci come mai anche dopo continui a camminare bene a lungo, non inciampi, non cadi, non trascini. Poi ti spiegano che quel movimento, che l’esoscheletro ti ha fatto eseguire perfetto, ti ha fatto rilasciare impulsi corretti dai nervi periferici al sistema nervoso centrale, alimentando quelle ‘vie’ neuronali colpite dalle lesioni: alimentando in pratica la plasticità. In quattro anni al Prosperius son tornata a godermi delle passeggiate che non mi sarei più sognata di fare. Il Lokomat, un gioiellino che ancora oggi ringrazio.

Il cuore della riabilitazione però era la terapia manuale. Non sapevo che mi avrebbe seguito un solo fisioterapista che avrebbe finito col conoscere a menadito ogni parte del mio corpo. Non sapevo che ogni mattina dopo colazione, sonno buono o cattivo, carica o spompata, mi sarei trovata lì sul lettino con Giacomo. “Forza, iniziamo”. E Giacomo sentiva subito nelle sue mani se per me era un giorno buono o cattivo. Ma non contava, perché non importa la prestazione ‘olimpica’, importa che quel movimento imprima alla via neuronale un impulso. Questo è già riabilitazione, è già recupero sulle lesioni, già plasticità. E giorno dopo giorno, la gamba torna a muoversi e tu torni a camminare. Ci vuole la pazienza di un tibetano, i miracoli non esistono. Ma a un certo punto, i risultati arrivano. Lo realizzai quando i miei genitori vennero a trovarmi la prima volta, per andare a cena: mi alzai orgogliosa davanti a loro e, “guardate come ri-muovo la gamba, come si alza”. “Incredibile, Laura! Com’è possibile?”. “Non so, il cortisone è stato un buco nell’acqua. I medici però dicono che la riabilitazione a volte funziona meglio dei farmaci”.

Quando sei in riabilitazione intensiva entri in un mondo di concetti affascinanti. Le catene muscolari, il reclutamento, la propriocezione. Il controllo del tronco, il diaframma, lo schema del passo. La soglia della fatica: con Giacomo scoprii che quello che facevo di sera in corridoio, in vestaglia e pantofole – camminare fino all’ossessione su e giù per i corridoi, solo per ri-allenarmi – era sbagliatissimo. “Hai faticato tutt’oggi e faticherai tutto domani: riposo!”. ‘Riposo’ diventò una parola chiave. Una parola che la società convulsa non ama, e che invece dovremmo riscoprire, magari prima di ammalarci. Riposo. Lentezza. Pause. Con le pause, si arriva dappertutto. Fatto sta che a luglio 2014 me ne tornai a casa sulle mie gambe, spedita, salendo di filato i tre piani della mia vecchia casa (leggi sessanta fottuti scalini).

La disabilità, quando poi la malattia diventa progressiva, non si ferma, non esistono farmaci e non fa miracoli neppure la riabilitazione, però almeno lei è una mano enorme per tenerla a bada. Come starei oggi, se non l’avessi fatta in questi cinque anni? Questa domanda, ogni anno, mi ha fatto superare la pigrizia. Lo sfinimento delle liste d’attesa (ogni anno chiamare e chiamare, non è mai il tuo turno, le strutture faticano a contenere i numeri). Il fatto che hai una patologia complessa con un sacco di sintomi, e avere una riabilitazione integrata pare un’utopia (vedasi alla voce ‘pavimento pelvico’). Le sedute annuali che, assieme ai budget delle cliniche, si riducono: in altre epoche il paziente neurologico aveva dritto a 40 day hospital annuali, poi sono diventati 30, poi 20. A dispetto di tutto, ogni anno mi son vista e sentita più dritta, più in piedi, più tosta, meno affaticata, meno bisognosa d’assistenza, più autonoma sotto gli occhi di un marito contento. 

Dall’anno scorso mi segue CORI di Passignano sul Trasimeno, un’isola felice di attenzione, cura, delicatezza e ascolto. Il lavoro è cambiato, oggi col mio livello di disabilità prevalgono la gradualità, l’allungamento e la conservazione. “Obiettivo, preservare il cammino”, scrive la mia fisiatra. Che bella frase, ‘preservare il cammino’: non vedere ciò che hai perso, ma lavorare su quello che hai ancora. In più, oggi, tanta terapia occupazionale: come ti muovi? Come ti sposti, se sei paralizzata? Come ti giri, come ti alzi o rialzi, se sei caduta? Queste cose son diventate vitali, e queste cose te le insegna solo la terapia occupazionale. In riabilitazione.

E adesso? Al Ministero della Salute progettano di cancellare la neuro-riabilitazione intensiva per quasi tutti e anche per la sclerosi multipla. Fra un mese avrei appuntamento con la mia fisiatra, quella stessa che lavora per ‘preservarmi il cammino’. Che faccio, la disdico? Non ci voglio pensare. Faccio come niente fosse, fino al temuto contrordine.

Ma se scompare tutto? Come li supero, i mesi e gli anni a venire? Bastano alcuni mesi perché già il mio corpo non sia più lo stesso. Come lo combatto, l’avanzare della malattia?

(nella foto in alto, la campagna #difendiundiritto di AISM)