Che una legge sull’eutanasia legale sia una legge di libertà, di libertà e autodeterminazione, penso sia chiaro a tutti. La raccolta firme con cui l’associazione Luca Coscioni è mobilitata in questi mesi punta a un referendum per chiedere al parlamento una legge sul fine vita, dopo decenni di inerzia e silenzio totale in materia (lo strumento del referendum potrà sembrare esagerato ad alcuni: basta ripercorrere tutti gli ostruzionismi passati per capire che oggi è l’unico possibile). Libertà è un concetto trasversale, che mette d’accordo tutti, almeno a parole. Ma autodeterminazione e disponibilità della propria vita (possibilità di disporne) un po’ meno, perché qui si incontrano e scontrano fede, ideologia, politica.

Per tentare di convincere anche gli scettici o contrari voglio uscire dalla mia storia personale, e usare tre parole molto meno rassicuranti di ‘libertà’. Parole che ho sentito negli incontri operativi della campagna referendaria “Liberi fino alla fine”. Parole che raccontano realtà e numeri, parole che non sono soltanto ‘argomenti’ da usare ai banchetti, perché sono verità crude e oggettive: clandestinità, sofferenza, discriminazione.

Clandestinità, perché non si può nasconderlo o far finta di non vedere il problema, centinaia di persone ogni anno non ci pensano neppure, a chiedere l’eutanasia legale. Si attrezzano altrimenti: con quello che il caso, la disperazione, i mezzi artigianali o contatti ‘fortunati’ consentono. Quante volte si sente nel lessico comune il termine “medico compiacente”? Come fosse una realtà normale. E può essere non solo un medico, ma un operatore, un assistente, un familiare (altrettanto disperato, a volte più del malato stesso). La verità nuda è questa, ed è bene capirla una volta per tutte: l’eutanasia in Italia già esiste ed è sempre esistita, e da sempre si pratica. Solo che è clandestina, illegale. Sono disposti, i contrari, a riconoscere questa realtà? Se sì – e mi auguro, sarebbe ipocrisia totale misconoscerla – visto che sono contrari, hanno degli strumenti tecnici da suggerire per impedirla? A parte un ‘occhio divino’ o non so cos’altro? E in ogni caso: andrebbe bene così? Qualsiasi calvario deve essere accettato?

La seconda parola è sofferenza, appunto. Sofferenza silenziosa. In mancanza di una legge e con la sola giurisprudenza a disposizione (la cosiddetta sentenza Cappato del 2019, il caso Dj Fabo) i malati oggi si appellano ad essa (i malati che rientrano nei requisiti stabiliti dalla Cassazione, quindi non tutti, poi ci torno). È bene sapere – pure io l’ho scoperto da poco, con la formazione per gli attivisti del referendum, e non mi ha fatto piacere… – che dal 2019 a oggi di fatto nessuna libertà si è dischiusa, perché la sentenza Cappato non è mai stata presa in considerazione da sanità e territorio, per i malati che ne hanno fatto richiesta. Il solo, recentissimo caso del tribunale di Ancona per Mario, paziente tetraplegico, è stato una notizia enorme e una svolta giurisprudenziale. Ma solo oggi, dopo ben due anni. I malati continuano a soffrire e senza una legge continueranno, a soffrire: perché i tempi della giustizia italiana sono maledettamente lenti. Passeranno sempre mesi o più spesso anni, prima che un malato riesca a far applicare una sentenza (se gli va bene). E nel frattempo, quanto tempo di sofferenza è passato?

La terza parola è discriminazione. Come accennavo sopra. La verità è che anche volendo uscire dalla clandestinità, anche attraversando mesi o anni di sofferenza, a oggi soltanto i malati che rientrano nella fattispecie prevista dalla sentenza Cappato – vedi Davide Trentini, altro caso di assoluzione sempre per Cappato e Mina Welby – cioè quelli “dipendenti da trattamenti di sostegno vitale” – più o meno quello che una volta si definiva essere attaccati a una macchina – possono sperare di veder riconosciuto il diritto alla morte assistita. E gli altri? Tutte le persone con patologie o disabilità gravissime – si pensi agli oncologici o alle persone affette da neurodegenerative, ma è solo un esempio, che mi viene più facile perché ci rientro… – sono escluse dallo stesso identico diritto.

La vera doccia fredda, se non si fa finta di non vedere, è questa: in Italia l’eutanasia già esiste (clandestina, illegale, pericolosa per chi la attua); e l’eutanasia legale già in teoria si potrebbe ottenere (ma per via giudiziaria, dopo anni di sofferenza, e comunque “privilegio” di poche categorie di malati). Cosa ci vuole ancora per capire che c’è bisogno urgente, non più procrastinabile, di una legge?

Una legge non aprirebbe nessun “far west” come alcuni detrattori temono, piuttosto fisserebbe regole precise, parametri e soprattutto, responsabilità (è questo, che si teme? La responsabilità?). Non lascerebbe nessuno allo sbaraglio anzi, proteggerebbe non solo il malato, ma soprattutto chi la effettua (eticamente e giuridicamente). Non costringerebbe nessuno che non vuole, ad attuarla. Un diritto in più non toglierebbe nulla a chi non lo vuole. Da persona gravemente malata e in progressione mi piace pensare non, che un giorno morirò per mano mia, ma che un giorno avrò la libertà di poterlo, solo poterlo, spero…, fare. Da attivista neofita per il referendum invece ho imparato altre realtà oltre a ‘libertà’ e ‘autodeterminazione’. Realtà molto meno belle, drammaticamente diffuse. Clandestinità, sofferenza, discriminazione.

Dovrebbe bastare questo, per convincere chiunque a mettere la sua firma. 

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