Quanto condiziona nella comprensione di un sintomo la definizione che gli diamo, quella che la scienza e il lessico comune gli danno? Tanto, tutto forse. Anche se a quel termine segue un’anamnesi, anche se si tenta di descriverlo e restituirne l’intensità. In una patologia complessa e multifattoriale come la sclerosi multipla, a volte un sintomo non si riesce a raccontarlo. Altre volte, un termine ‘ingabbia’ una realtà, la incapsula dentro un qualcosa di standard, mentre ciò che si cela dietro è molto più complesso.

La parola ‘fatica’ ad esempio, amici lettori non affetti né coinvolti dal tema sclerosi multipla: che cosa vi evoca? Stanchezza, uno stato passeggero, forse anche fiaccheria o pigrizia. Non è così invece – lo sanno bene gli amici coinvolti e ho già avuto occasione di scriverlo su queste pagine – il sintomo ‘fatica da SM’. Fin qui è abbastanza pacifico. Nella variabilità dei quadri clinici e nella percezione soggettiva degli stessi, ognuno ha la sua, di ‘fatica’ (il termine vorrebbe tradurre quello più calzante di ‘fatigue’). La mia fatica però è diversa.

Non sto sminuendo il sintomo che tanti altri accusano, di fatto, ognuno ‘vive il suo’. Sto solo constatando una realtà dopo anni che ne soffro, e dopo consultazioni con specialisti di ogni livello e latitudine. Giorni fa l’ennesima conferma, chiacchierando con un amico medico che da tempo accoglie i miei sfoghi. E per l’ennesima volta, è ripartito all’attacco lui stesso: “il termine ‘fatica’ è fuorviante. Non è solo una semplificazione, proprio non rispecchia quello che tu, ogni giorno, sperimenti”. Il dibattito sul termine non è mera teoria, non parliamo di sesso degli angeli: è anche da lì che discende la comprensione di ciò che vive il paziente e il giusto approccio per affrontarlo .

Non riesco a farmi comprendere sull’aspetto ‘fatica’, e non dipende dalla competenza, bontà o interessamento dei tanti specialisti che ho consultato (e altri continuerò a consultarne, la speranza è l’ultima a morire); ma dall’intensità e portata del mio sintomo. L’amico medico rilancia, facciamo una battaglia sui giusti termini: “meglio faresti, da quello che vivi e per come la descrivi, a chiamarla ‘paresi centrale’. E in ogni caso, il termine medico ‘fatigue’ non trova una corrispondenza nell’italiano ‘fatica’”. Insomma se il termine ‘fatica’ è fuorviante per chiunque, perché nel lessico comune evoca altro – i casi di malinteso e discriminazione, per le persone con SM, non si contano – il mio sintomo è ancora più distante da una ‘normale’ fatica da sclerosi multipla.

Questa distanza la percepisco più che mai oggettiva, e non solo frutto di un mio vissuto sofferto, quando mi confronto con gli altri. “Tu cosa fai, quando ti viene la fatica centrale?”. “Mah, dipende dai casi, magari sto a letto e mi ascolto della musica o leggo un libro”, “se mi va, dato che mi piace viaggiare, m’infilo in un treno e faccio due chiacchiere con i compagni di viaggio”, “ho la fortuna di avere la piscina, mi faccio un bagno”, “sto a riposo”, “è forte sì, ma con tanta motivazione riesco a vincerla”. Risposte che significano che non mi sono riuscita a spiegare, o che la mia ‘fatica’ è davvero lontana da quella comunemente intesa. D’altronde perché le persone comuni, affette dalla stessa patologia – e afflitte da un sintomo subdolo, che porta, per di più, lo stesso nome! – dovrebbero comprendere?

Le persone comuni, ci sta. Ma che cosa mi dicono i medici, in merito? Che è strano osservare un tipo di fatica così ‘stereotipata’ (tutti i sacrosanti giorni, sempre uguale, sempre nella stessa fascia oraria, sempre con la stessa violenza); che una curva di fatica nell’arco della giornata così marcata (le ore centrali, sempre, dalle 13 circa alle 18 circa o anche oltre, la fase acuta dalle 14 alle 17) è strana; che non sembra neppure una fatica da sclerosi multipla. “Devono esserci delle concause, la sua è qualcosa di più o addirittura di diverso”, sono state le parole di ricercatori, specialisti, luminari. E subito dopo ho sentito domande che mi facevano capire che si era lontanissimi dal capire la portata del sintomo, come: “ha mai provato un percorso psicologico?” L’immancabile ipotesi psicosomatica. “Sì, dottore, le confermo che ho fatto anni di analisi. Non sono depressa, non c’è alcuno stato emotivo dietro”. Ma è solo un esempio. Ho sentito ‘negare’ il mio sintomo come sintomo di SM, o aggrapparsi ai protocolli, o incolpare il sonno (che ho regolare) oppure questo o quel farmaco.

Quando alla stessa ora tutti i giorni la testa comincia a fare malissimo – una sorta di compressione cranica diffusa – e i movimenti di mani, braccia, busto e gambe, rallentano e si appesantiscono fin quasi a fermarsi; quando non riesco più a parlare fluentemente, respiro con affanno, mi provocano ancora più dolore suoni o luci (devo andare in silenzio e penombra, distesa); quando non riesco a portarmi la forchetta alla bocca e devo essere imboccata, o non riesco a lavarmi i denti (capita ormai che le assistenti mi mettano il dentifricio sullo spazzolino, e me lo muovano direttamente loro); quando non mi alzo per andare sul wc (non esiste la possibilità di fare passaggi e trasferimenti da sola, le gambe sono spente, devono caricarmi di peso); quando a letto devo essere posizionata e girata – girata – da altri; quando, in questa fase acuta e con la testa dolorante, me ne sto distesa a occhi chiusi per ore senza poter fare nulla, senza avere sonno, solo per rallentare quel dolore pulsante alla testa e quella debolezza estrema al corpo – ho un cellulare accanto a me sul letto per chiedere aiuto, il problema è che neppure le dita digitano; quando mi faccio mettere in poltrona alle 17 perché la fase acuta è finalmente superata, ma di essere attiva, uscire o interagire, non se ne parla fino a sera; infine, quando ciò accade tutti i santi giorni… Come posso definire questo sintomo semplicemente ‘fatica’?

Per fortuna mi capita d’incontrare ogni tanto un neurologo empatico, che mi crede fino in fondo e mi dice che tutto questo è sì possibile, e certo che non sono un “assurdo inspiegabile”… Che ogni paziente è unico e diverso, tanto più in una patologia complessa e imprevedibile come questa. E al di là della gabbia delle definizioni, mi ricorda i limiti della medicina, scienza umanissima e inesatta, alla faccia dei protocolli e delle casistiche.

Li ringrazio, quei medici, perché pur ammettendo di non potermi offrire né risposte né soluzioni, mi hanno fatto sentire meno sola.