…Ovvero quel fattore invisibile che complica tutto, e che mi fa dire sì, viaggiare è possibile eccome, il turismo accessibile è in piena espansione e le possibilità ci sono eccome, sempre più e variegate. Ma col “fattore SM” non è affatto scontato né facile. Non lo è per nessuno, direte. Certo viaggiare da disabili esige tigna, caparbietà, organizzazione, fatalismo, l’aiuto costante di qualcuno e una lista nutrita di piani B. Ma la ‘bastarda’ in particolare, la SM coi sintomi classici di una patologia complessa – quelli più subdoli: quelli più feroci – ti rende anche una scampagnata, uno scoglio da superare. Io ancora in questo scoglio ci resto incagliata, nonostante ‘la vita possibile’ e nonostante sia stata, negli anni sani, una viaggiatrice.

A oggi sono sette anni che non m’imbarco su un volo, sette che non vado oltralpe per quattro che sono in carrozzina. Va bene, ci sono bisogni più basilari e pure per moltissime persone senza disabilità viaggiare resta un’utopia… Ma diciamocelo, che la vita è più degna di essere vissuta se si esce dal metro quadro del proprio quotidiano e si vedono altri luoghi, altri scenari, altre genti. Aiuta anche questo a continuare ad aver voglia di vivere. E diciamocelo, che mi manca. Ancor più mi manca oggi che la malattia e la fatica mi hanno fatto uscire dal mondo del lavoro, e la quotidianità è riempita in gran parte dalla gestione dei sintomi. Ancor più mi fa rabbia non farlo, oggi che mi trovo a risparmiare per forzata inattività su tutto, e un po’ di riserve per uscire dal ‘metro quadro’ ce l’avrei.

Forse potrei ricominciare a viaggiare proprio da dove ho lasciato il discorso sette anni fa, là a Berlino. Mi stringe il cuore ripensare a quel viaggio nel 2012, perché la malattia proprio in quegli anni si stava risvegliando, e quelle camminate lunghe ed esauste – dopo un tot di chilometri cominciavo a zoppicare e mi sedevo ogni mezz’ora – erano solo l’inizio di tutto quanto. Allora ero spaventata, che sarà mai, si fermerà qui?; se ci ripenso oggi, venderei l’anima per stare un decimo di come stavo. Allora osservavo ammirata (e confesso, intimorita da uno spauracchio futuro) le tante persone disabili in carrozzina che si potevano muovere libere su e giù per le strade, la Hauptbahnhof multipiano, i treni e tram perfettamente accessibili; oggi magari avrei anch’io qualcosa da dire con la mia superleggera più motorino elettrico; oggi potrei finalmente sperimentarne io stessa l’accessibilità. Oggi potrei quasi mangiarmele, Alexanderplatz o Potsdamerplatz o le passeggiate lungo la Sprea. E magari servirebbe a riallacciare un filo, a riprendere un discorso interrotto, dopo che nella vita precedente ho viaggiato davvero per cinque continenti.

E allora perché non lo fai? Per il “fattore SM”. Per la bastarda fatica centrale che ogni giorno, 365 giorni l’anno, mi fa praticamente ‘svenire’ dalle ore centrali fino a sera, togliendomi di fatto 5, 6 o anche 7 ore tra cefalea e compressione cranica, fonofobia e fotofobia. Chi ci sta più, in mezzo a una metropoli? Ma anche un paesino di campagna o un paesaggio, volendo stare più calmi, quando solo a letto e in silenzio e penombra posso stare, dove neanche mi giro da sola, per la conduzione nervosa a zeroquando non recluto busto o gambe e devo essere spostata e trasferita da altri? Al di là della mera disabilità motoria, se il velo doloroso che mi avvolge la testa mi impedisce qualsiasi interazione? (Come ci parli, col personale di un aereo, di un albergo, non parliamo della gente là fuori, ché non potrei stare fuori’ da un qualsiasi letto, stesa?). A scanso di fraintendimenti su cosa sia la fatica e su eventuali fattori psicosomatici: rileggetevi il post “Il sequestro. Vivere con la fatica” (non ho alcun farmaco a disposizione per attenuarla, nella vita quotidiana organizzo le giornate facendo sistematicamente a meno dei pomeriggi). Al netto della fatica, qualunque ostacolo – o quasi – sarebbe aggirabileLo sarebbero anche altri aspetti del “fattore SM” come la vescica iperattiva, l’incontinenza – difficile conciliarle con la mobilità ridotta, se devi alzarti ogni mezz’ora – il fenomeno di Uhthoff (chiamarlo ‘sensibilità al caldo’ è riduttivo: c’è una definizione clinica precisa), la spasticità, gli spasmi, il dolore. Tutto questo non si valuta, nei centimetri delle normative per l’accessibilità, nei maniglioni, doccine bidet, piani doccia a filo pavimento, spazi di manovra, rampe e via dicendo. Non si vede, nelle strutture accessibili pubblicizzate dai tour operator di settore; non lo può sapere l’albergatore quando, bombardato dalle domande di Stefano al telefono sull’accessibilità – una mitraglia, pare il mitico personaggio di Furio in “Bianco rosso e Verdone” – lo liquida estenuato con un “ma sì, le dico che la stanza disabili è a norma” (attenzione, dietro le due paroline ‘a norma’ può nascondersi tutto o niente).

Quando già ottenere l’accessibilità fisica (cosa oggigiorno dovuta, direte voi…) è un goal, e non sempre bastano gli interrogatori all’hotel, le foto pretese via email prima di partire e le sorprese cocenti in loco (magari all’estero è meglio, ma solo in Italia ognuno di noi potrebbe scriverci un libro di aneddoti); quando il trasporto aereo è sempre un punto interrogativo e ti deve andar bene (solo per dire, ci sono polizze assicurative per il rischio frequente che la carrozzina venga rotta nel bagagliaio stiva… La carrozzina però non è una valigia, ahimè); quando non sempre i percorsi garantiti come accessibili, quando li chiedi, sono poi davvero tali… Arriva la fatica centrale col suo ‘quasi-svenire’, l’incontinenza che ti vorrebbe alzata e in bagno di continuo pure se stai su un aereo o in giro senza wc accessibili – ovvio che in spazi  e contesti sconosciuti, non hai la tua autonomia – o lo shock termico che per 2 gradi in più ti fa sciogliere come marmellata a terra (lo scorso luglio in una Genova torrida – vedi foto – più volte ho visto Stefano vestirmi e svestirmi da distesa a letto, inerme).

Può bastare tutto ciò, per farti passare la voglia di viaggiare? Come no. Certamente. Ti mette definitivamente l’anima in pace? Niente affatto, perché una vita anche solo un po’ viaggiata – malattia, disabilità, tasche e tutti i limiti permettendo – è una vita più ricca, piena, alla fine degna di essere vissuta. 
E riprovarci prima o poi, non so quando, sarà un dovere.