Ci dispiace, ha perfettamente ragione, non sappiamo che dirle, però può scrivere un reclamo”. Quante volte ci siamo sentiti recitare questa frase? E quanto ci ha fatto incazzare? L’ultima per me sul Lago Misurina, lo scorso agosto sulle Dolomiti. Il lago non lo possiamo vedere: tutti i posti auto nel giro di diversi chilometri sono presi, impossibile avvicinare non dico il lago, ma anche i paraggi e anche camminando bene e molto. Ufficio del turismo locale, scende al volo Stefano imbufalito: “Per carità, oggi è un dramma ci dispiace”, è la risposta, “e comunque no, non sono previsti posti disabili. Ha perfettamente ragione e anzi, può scrivere una lettera al Comune di Cadore”. Lo dico per l’ennesima volta, lo ripeto, sottolineo, da donna matura, equilibrata, non da disabile-incazzata-e-rancorosa-che-pretende-l’impossibile. Ogni volta che t’impediscono di andare in un posto, attenzione non un posto utopico, non un posto improponibile, non un posto “eh beh ma questa che vuole adesso”, ma un posto perfettamente agibile, ogni sacrosanta volta che ti rimandano a casa facendo spallucce e con un ‘ha ragione’ (ve lo posso dire cosa ci faccio, con la vostra ragione?) di fatto, ti negano di vivere.

Ti negano di vivere perché l’accessibilità, o meglio la fruibilità dei luoghi, non è solo la banale assenza dello scalino, ma la possibilità di andarci, in quei luoghi, appunto di viverli e non solo di agognarli da dietro al finestrino di un’auto. Molta della mia vita si svolge guardando attraverso un finestrino. Quando la fatica lo consente, io e Stefano ci facciamo dei giri splendidi, questo devo riconoscerlo. Ma per me sono, perlopiù, ‘giri’ nel senso che i luoghi li sorvolo, li osservo a distanza; e se questo è inevitabile laddove la disabilità motoria t’impedisce di passeggiare, esplorare, scalare, andare sulla sabbia o su un sentiero montano o perderti in vicoli o salire a un monumento, o sentire gli odori della natura, o infilarti fra la gente e i suoni, insomma tutto ciò che è ‘fare esperienza fisica’ di un luogo… Lo accetti un po’ meno quando dipende dall’incuria, dalla superficialità, dalla tirchieria, dal mero disinteresse, da tutto ciò che ho scoperto chiamarsi ‘abilismo’. E proprio di negazione si tratta: negazione dell’esistenza di persone diverse, con esigenze diverse, ma persone, vivaddio.

Ti negano di vivere quando vorresti, avresti diritto e potresti (come disponibilità economica) andare a vedere posti nuovi, fra i tanti che vedi scorrere come cartoline nei tuoi social: i luoghi dove vanno i tuoi amici, per esempio, che tu conosci già per fama, che magari hai quasi sfiorato. Ma regolarmente quei posti te li devi immaginare e basta, perché non puoi. E non puoi non perché i posti siano fisicamente impervi, ma perché non esiste struttura accessibile nei dintorni.

Ti negano di vivere quando ti sbatti contro l’accessibilità reale in Italia, quella reale, non quella presunta, dichiarata, sbandierata. E non è questione di avere esigenze troppo particolari o di nicchia. Quello che posso dire dopo anni di ricerche sfiancanti con Ste, perlomeno in Italia, è che manca sempre un pezzo. Camera accessibile in tutto e per tutto? Ma la prima spiaggia è a chilometri. O la spiaggia non è attrezzata, e non si può fare il bagno. O lo è, ma solo in parte (un classico): sedia job sì, passerella no. Una cavolata, direte? Provate ad andare con la vostra carrozzina in mezzo alla sabbia e fino al mare. Oppure sedia job assente, e quindi bagno in mare, ciao. Le camere, da parte loro, sono sempre una chimera. Wc rialzato sì, ma maniglioni no (e dove mi appoggio, io? Come mi rialzo?); doccina bidet assente (un classico, questo… Eppure siamo in Italia, dove il bidet usa, e consentitemi, da donna sento il bisogno di farlo). Doccia senza sedia (ci può stare, uno se la porta dietro) ma anche senza un solo maniglione (una prova di equilibrismo, altro che doccia). Collegamenti con luoghi e infrastrutture assenti, per cui l’hotel lo hai trovato – e magari a caro prezzo, l’accessibilità completa la fanno ben pagare – ma trovare itinerari, percorsi adeguati è utopia. La verità è che alla fine le persone con disabilità in vacanza, in qualche faticoso modo, ci vanno: ma se vogliono tentare il nuovo lo fanno a caro prezzo. La verità è che in dieci strutture sbandierate come ‘accessibili’, cinque faranno al caso vostro; di queste cinque, una o due avranno tutti i requisiti che vi servono per – banalmente – vivere (non si parla qui di optional, ma di potersi alzare senza cadere, girare, lavare). Tutto questo nessuno ve lo ha detto, però: non esiste una mappatura dell’Italia turistica accessibile. Ci sono ‘portali’ o siti web frammentari, progetti incompleti partiti bene, sovvenzionati da qualche istituzione, ma regolarmente datati e parziali. Per cui, che fare? Attaccarsi al telefono e chiamare. Come un operatore di call center, ogni anno mio marito si attacca al telefono e ogni anno passano giorni, richieste, risposte, tentativi, speranze. Alla fine si torna negli stessi luoghi, ma più che per passione, per carenza di possibilità.

Anni fa un caro amico mi disse “te la prendi troppo, Laura… Io più che quelle due settimane all’anno lì, vorrei essere autonomo nella mia città, poter uscire e vivere nei restanti 350 giorni l’anno”. Quanto avesse ragione, non potevo capirlo allora. Lo capii molto meglio una volta in carrozzina.

Sulla “vita negata” nella quotidianità, però, c’è da aprire tutto un altro capitolo. Magari a vacanze concluse, non si sa mai che sia un po’ più rilassata.