Vivere con la fatica

“Il sequestro” non è un titolo acchiappa-clic e non lo è la mia foto qui accanto, autentica (con un marito fotografo si prendono anche questi momenti). Il sequestro di un pezzo di vita quotidiana è dovuto alla mia fatica centrale, o fatica primaria – il termine corretto sarebbe primaria, ma io ho preso a chiamarla centrale – causata dalla sclerosi multipla. Fatigue o lassitude sono termini scientifici precisi. Detto proprio in soldoni, il nostro sistema nervoso centrale, già compromesso dalle lesioni della malattia, deve “mettersi a riposo” e ciò provoca una conduzione rallentata degli impulsi nervosi.

Chi ha una SM sa di cosa parlo. Tutti provano fatica, ma – sgombro il campo da un equivoco che s’ingenera spesso – c’è un’altra fatica da SM, quella secondaria (causata da altri fattori, farmaci, caldo, eccessivo dispendio energetico, parliamo comunque di una bella bastonata) che molte persone con SM provano e che è dura, ma è gestibile. Pure io, negli anni in cui la malattia mordeva meno, la provavo: bastava che esagerassi negli sforzi, dove esagerare significa fare pochi metri in più, stare in piedi quei minuti di troppo, fare qualche faccenda pesante o riempire troppo la giornata. Si paga, ti mette a terra, poi, col dovuto tempo e riposo, recuperi.

La fatica centrale invece è un altro paio di maniche. Deriva direttamente dal danno al sistema nervoso centrale e per me è un treno che passa tutti i giorni nelle ore centrali, dalle 13 circa (i miei pranzi sono sempre come in foto, spalmata sul tavolo) fino alle 17-18 (nei giorni tosti il treno mi passa sopra fino alla sera). A dispetto di tutti i pregiudizi e dell’immaginario comune che vede soltanto la carrozzina, questo, nonostante non si veda, si fraintenda o si sottovaluti, è il sintomo spesso più devastante della sclerosi multipla.

Tutti i giorni, appena si approssima l’ora del “treno” – arriva sempre, anche se di mattina sto bene – i miei movimenti iniziano a rallentare, la parola biascica, la testa ciondola, di colpo pesantissima, come se me l’avessero riempita di piombo. Ciondolo con il busto e devo mettermi stesa da qualche parte. Ovunque io sia, devo spalmarmi come nella foto. Qualsiasi rumore o luce – una tv basso volume, la luce ambiente, la voce di mio marito – mi dà dolore. Non c’è, in tutto ciò, alcuno stato umorale che condiziona, e non c’è alcuna possibilità di ignorarla, pena il pagarla poi cogli interessi. Non esiste caparbietà né motivazione, in quelle ore. Il treno arriva puntuale, paralizzante e doloroso, e dalla testa si propaga al corpo e ai movimenti.

Una perdita di forza pressoché totale non mi fa muovere né alzare braccia o mani: per il cibo spesso vengo imboccata (ho dovuto superare anche questa), visto che con un braccio puntello il busto, con l’altra mano puntello la fronte, e me ce ne vorrebbe una terza per mangiare; sul tavolo ho una borraccia da campeggio da cui posso bere senza doverla sollevare, idea di Stefano (chi lo alza se no, il bicchiere?). Spesso non arrivo a finire il pasto prima che il “treno” arrivi e devo andare distesa, subito. Mi stendo aiutata da altri, le gambe non riesco proprio a ‘reclutarle’, come si dice tecnicamente. In quelle ore a letto non mi giro su un fianco, non mi sollevo né sposto, in bagno non muovo lo spazzolino sui denti (a dire il vero non strizzo neppure il tubetto del dentifricio, troppo, per le mie dita). È come un segnale interrotto: come un cellulare che metti in ricarica quando è veramente a zero. Sta lì e lampeggia in rosso e per un po’ non devi rompergli le balle. Solo che il mio cellulare sta in rosso 5 o 6 ore, e in quelle ore devo essere messa a letto, trasportata di peso in bagno – dove ciondolo perché non sto dritta col busto – una volta a letto a occhi chiusi e in penombra devo rallentare qualsiasi pensiero. Questo è lo stesso corpo che la sera si muove, esce, pensa, parla: lo stesso corpo che in quelle ore pare una bambola di segatura, e se cade resta lì sciolto sul pavimento e inerte (tutta fatica di braccia, in compenso, per il fortunato che mi tira su).

I risvolti sociali del sequestro quotidiano? Di fatto ho perso le ore centrali. Da un anno e mezzo, da quando soffro di questo tipo di fatica, non esistono più pranzi in compagnia. No capodanni, no famiglia, no amici, no: “venite a trovarci per un pranzo al volo”. “Non si può, Laura è affaticata”. “Che problema c’è? Si riposa un po’ e poi torna fra noi”. (Come fai a spiegarla, dannazione?).

Vita sociale, attività anche assistita, un convegno, una gita, un incontro che si svolgano primo o metà pomeriggio, parlare al telefono, tenere in mano il telefono, rispondere a un messaggio: niet. La tua vita è, o di mattina, o tardo pomeriggio/sera, quando i sintomi pian piano si dissipano. Quanto fa, moltiplicato per tutti i giorni? Metà vita. Stai nel letto, magari sei positiva, magari dopo la smaltita vorrai alzarti, vedere un amico, uscire, scrivere: intanto te ne stai lì, annebbiata, pesante. La vita scorre e tu avresti qualcosa da fare, ma non se ne parla. Tra cinque o sei ore o anche domattina.

I medici sono perplessi nel sentire i miei report: un neurologo mi ha detto che o sono io che la descrivo molto bene, oppure una forma così totalizzante non si è mai vista. Io penso che sia la prima ipotesi, magari molti altri non ce la fanno, a raccontarla. Per me, al di là di essere un caso da Quark o no, la questione è un’altra: se avessi soltanto una disabilità motoria me la giocherei, eccome se me la giocherei. Invece questa roba ti spegne. Letteralmente.

Non esistono farmaci, a oggi, per ‘velocizzare la conduzione nervosa’ e contrastare la fatica centrale. Si tentano un paio di molecole di diversa provenienza ed efficacia non certa, c’è qualche ricerca sull’elettrostimolazione. Ma ancora la scienza, per ciò che riguarda la fatica, naviga in una nebulosa.
E personalmente anch’io.