Questo episodio risale a un anno fa, ma da allora mi sono ripromessa che se mai avessi aperto un blog, ci sarebbe stato. Nel frattempo il mio amico Michele Martinelli, artista, definito pitto-scultore per la tecnica particolare che lo rende peculiare – e che per me resterà sempre “Michelone” dai tempi della scuola, vista la mole da giocatore di football americano – è quotato e gira il mondo con le sue mostre. A me però quell’episodio rumina in pancia, e devo raccontarlo.

Io sogno tutte le notti ma l’unica volta che finora ero mai riuscita a sognarmi in carrozzina, e non in piedi (vedi post i miei sogni in piedi) fu due anni fa, in un sogno in cui scarrozzavo felice dentro la Rocca Paolina. Scendevo giù da Piazza Italia, entravo nella Rocca; da seduta e ‘saltellante’ mi facevo fino in fondo tutte le scalette che affiancano le scale mobili della rocca rinascimentale (si chiama Paolina perché fu edificata da Paolo VI, tanto per ribadire il suo potere sui perugini ostili). Andatevi a vedere cos’è la Rocca Paolina oggi e dopo la ristrutturazione anni ‘80: una città sotterranea antica, che su una serie di scale mobili inserite nelle strutture antiche originarie – fino all’età Etrusca – vi porta su in piena acropoli. Per i turisti è un’esperienza suggestiva, per noi indigeni un transito necessario per guadagnare il centro dopo aver lasciato l’auto nei vari parcheggi. Il sogno mi aveva fatto ritornare in mente dopo anni la Rocca. Già, quanto tempo è che non la posso più vedere? E quando è stata l’ultima volta?

Quando ti ammali di una patologia invalidante e progressiva, come fai a saperlo, quando non potrai più vedere i luoghi della tua città? Chi ti avvisa, che quella salita che stai facendo ancora in piedi, magari già malferma, incespicando su Via Baglioni o altre vie e sale sotterranee – dove una volta ci andavano a cavallo, per dire – sarà l’ultima e definitiva?

Nessuno, né hai la sfera di cristallo: e così la Rocca come tanti altri luoghi, storici per la città e per te – Via Bartolo e Via Scoscesa, che già dal nome è un programma, o le scalette di Sant’Ercolano, o l’acquedotto e la via Appia, per citarne alcuni – prima ancora che tu realizzi sono già un ricordo della vita precedente. Quella vita in cui salivo frettolosa di mattina, pagato l’obolo al parcheggio, e ‘in tiro’ a prova di telecamere e luci salivo fino a Piazza Italia, dove lavoravo in tv locali. La stessa vita precedente degli Umbria Jazz, delle manifestazioni, delle camminate distratte o frettolose – quando non scoglionate, perché non si guarda quello che ci passa accanto, quando ce l’abbiamo lì e abbiamo fretta e c’era traffico e dannazione è tardi. Capita, e basta. Ciao Rocca, tanti saluti.

Poi un giorno arriva Michelone. “Perché non vieni a vedere la mia mostra alla Rocca Paolina?” “Non posso, amico. Ti rendi conto dove sta?” “E pensi che a me e a tuo marito metta pensiero caricarti di peso giù, dalla porta d’accesso in Via Marzia? Te lo dico io, tu verrai alla mia inaugurazione”. Chiusa la discussione. Già: c’è la porta d’accesso in Via Marzia, alla base. Cinque o sei scaloni, ma due uomini tosti mi caricano. Perché non ci ho pensato? È così che si comincia a stare a casa.

Me ne sono ben resa conto, di quanto fossi stata – comprensibilmente – idiota, proprio da manata in fronte. Deve aver pensato che avessi qualcosa di strano anche il custode all’ingresso di Via Marzia, appena sono entrata caricata dai due: perché piangevo come una bambina. “C’è qualcosa che non va, signora?” “Niente, stia pure comodo. Sono solo commossa”. In un attimo ero lì, lungo l’antica ‘Via Bagliona’ sotterranea, e tutto era di nuovo alla mia portata. Magari non proprio tutto. Non ti puoi certo spericolare negli anfratti più pendenti. Ma la vista centrale, eccome se ce l’hai. Cos’è successo nel frattempo, in questi… quanti anni? Cinque, sei? Non ti ricordi neppure tu quand’è che realizzasti che faticavi troppo e il bastone non ce la faceva più a reggerti.

Lacrime, stupore affettuoso di Michele e della sua compagna (e infaticabile curatrice) Alessandra, rivedere le persone conosciute come niente fosse; ma tutti guardano le opere di Michele e nessuno fa caso al luogo in cui sta, mentre io, non me ne voglia l’amico artista, i suoi quadri all’inizio non riesco a filarmeli, perché guardo tutto intorno con il sorriso beota di chi è in un posto fantastico, una specie di deja-vù ri-diventato vero. “Ora ti faccio piangere ancora”, scherza Michele: “chiudi gli occhi”, e tra le mani avevo una sua tela 60×40, lo scorcio di Via Bartolo-Via Scoscesa che si vede nell’immagine a fianco, il suo regalo.

Oggi il quadro di Michelone mi fa compagnia dalla parete di casa, davanti alla poltrona su cui passo il mio tempo. Lo guardo e mi reimmergo in quel pomeriggio, ma ancor più in quella via e in quei quartieri, gli stessi in cui scorrazzavo da studentessa, da giovane, da adulta sposata e lavoratrice. La mia città e il mio centro che ri-diventano miei, perché ho smesso di pensare che le cose sono diventate impossibili senza tentare. Prima lezione.

Seconda lezione, se non bastasse già la prima. Ho scoperto soltanto quella sera in cui ero riuscita a stare di nuovo laggiù, seppure con l’aiuto di altri, che la Rocca Paolina è, parzialmente accessibile. Da un angolo sul lato opposto dello spazio espositivo CERP – dove io, distratta-frettolosa, ero passata miliardi di volte – fanno capolino l’ascensore per disabili che arriva da Viale Indipendenza, a metà percorso, e il wc attrezzato.

Chissà se quel mio primo sogno ‘finalmente seduta’ mi ha portato bene, o era premonitore di un qualcosa che si deve ricucire. So solo che ogni tanto è bello sentirsi idioti.