Sono trascorsi mesi dall’ultimo post, una lunga pausa dettata sia dalla malattia sia da una saturazione per lo scrivere. Ma non solo. Troppo vociare in tempi di pandemia. Qualsiasi cosa mi sarebbe parsa già detta, non avrei aggiunto nulla al chiasso di fondo. Una di quelle fasi in cui il silenzio è d’oro. E così riparto non parlando di vaccini, caregiver, lockdown, ma di un tema intimo che mi ‘tocca’, per ribadire quanta vita – e quanta sofferenza – ci sia, di là dalle emergenze di oggi.

Le mani sul corpo, ad esempio. Ho già descritto quanto la non autosufficienza costringa a dover chiedere a qualcun altro per un gesto che a molti neppure ‘pare’, un gesto, tanto è immediato e automatico. Non più solo uscire o gestire la casa, le azioni complesse, ma essere lavata, vestita e svestita; e oltre queste semplici azioni, i task quotidiani più elementari, essere spostata, girata, posizionata, alzata, ricollocata, raccolta. La capacità di muoversi si riduce pezzetto per pezzetto, la paralisi – va chiamata col suo nome: che sia causata da perdita motoria oggettiva, fatica centrale, o spasticità – si prende progressivamente sempre più pezzi del vostro corpo, nonostante l’ostinazione e la tigna. Oltre al vissuto interiore e al disagio di mente e cuore, c’è però qualcun altro che urla. È il corpo.

È il vostro corpo paralizzato, o quasi (la sclerosi multipla concede sempre, anche nelle forme progressive, degli scampoli di recupero), spastico (questo è un grosso problema, se chi vi assiste non conosce il fenomeno e i rischi connessi); affaticato (questo problema qui è enorme, perché la fatica è un’altalena che oscilla di ora in ora, e può lasciarvi attivi così come rendervi un peso morto); ma sempre e comunque un corpo che ‘sente’, che ha tutti i canali sensoriali e propriocettivi integri, che prova fastidio, dolore, stanchezza posturale, pruriti, strappi, così come tutti i corpi ‘normali’. Vi chiedete se io senta, mi guardate come fossi un tutt’uno con la mia carrozzina? Ebbene io sento tutto proprio come voi. Sento il fastidio della carrozzina quasi come lo sentireste voi, dove il ‘quasi’ è quel po’ di abitudine che regala il tempo. Sento l’urgenza di staccare la schiena da quel dannato schienale, come la sentireste voi. Il fastidio improvviso di un prurito lontanissimo dalla portata mie mani. Il dolore al trapezio, il bacino troppo lontano dal sedile, le gambe smaniose di muoversi, proprio come voi. Con la differenza che sono paralizzata.

Oltre a questi continui punzecchiamenti del corpo – in fondo lui sta lì, a ricordarvi che i suoi sistemi funzionali sono ancora vivi– le mere necessità fisiologiche e i passaggi della giornata lungo le 24 ore, tutti quei ‘task’ complessi che non sono scomparsi, e che ancora una mente di donna lucida rivendica: uscire, incontrare, cambiare scenario. In tale situazione dovete sempre più essere gestiti da altre mani, non solo quelle del vostro caregiver familiare, ma quelle delle assistenti. Dall’inizio della storia ne conto oltre una dozzina fra operatrici di cooperativa per conto di ASL, figure private, assistenti in nero, occasionali, improvvisate. Ognuna con le sue mani, col suo modo diverso di toccarvi, gestirvi, tenervi, afferrarvi; ognuna con la sua formazione (o meno), col suo metodo (o meno), con la sua forza (o meno), con la sua discrezione (o meno), ma tutte costrette, oggi, a essere invasive, se mi è impossibile collaborare. Si immagina quindi quanto oggi io possa vivere solo grazie alle loro mani, braccia, corpi, oltre a quelle di mio marito, certo più intime e familiari, ma che pur sempre mani estranee – non scelte: non le mie – sono.

L’assistente che mi seguiva per ASL non lavora più con me? La titolare del mio servizio deve affiancare le candidate possibili a sostituirla. Come? Formandola su passaggi e trasferimenti in casa,

letto-carrozzina, carrozzina-poltrona, carrozzina-wc e ritorno, carrozzina-divano, carrozzina-auto per le poche volte che esco, carrozzina-doccia: come si comporta il mio corpo quando è in fatica, come puntellare gambe o tronco per tenermi dritta o vestirmi, come raccogliermi se sono finita sciolta sul pavimento, al contrario come ‘aiutarmi e basta’ se sono attiva e voglio muovermi (esistono corsi ad hoc, ma 1. normalmente la SM non viene contemplata nei corsi per OSS, 2. non sempre queste donne sono formate). Già affiancatane una: è troppo esile per sostenermi. Domani si prova la seconda… E dovrò di nuovo essere in forma per aiutare Ilaria a ‘spiegarle il mio corpo’, le consuete due ore di alzate e manovre. Così ogni volta, da quattro anni, a ogni cambio assistente. Con le private è pure più complicato, perché non hai una cooperativa che si fa carico di formarla. E può capitarti quella che ha esperienza solo con anziani e non con disabili (altro pianeta), quella che ha gestito bambini e mai adulti (altra galassia) e ti solleva da terra come un bambino di dieci anni (e poi giù strappi), il “lottatore di sumo”, quella troppo insicura, quella che ti manda in spasmo, e così via. Di recente ho dovuto sostituire proprio l’assistente privata. I colloqui insieme a Ste sono stati una fatica epica. “Dobbiamo cominciare così, scusaci… Laura è stesa a terra: riesci a tirarla su? Okay, la doccia. Come la carichi in doccia? Okay, ora come le pieghi le gambe?” Ogni volta lo stesso copione (non parlatemi del distanziamento anti Covid, va da sé che per noi non può esistere). Stefano parte per qualche giorno di trasferta? A parte la pianificazione maniacale delle assistenze, nell’arco delle 24 ore ne incontro 4 o 5: e a ogni cambio, a ogni saluto, devo ri-settarmi sulle mani, sulla presa, sul corpo, sulle capacità o meno della nuova arrivata, ripetendole ogni volta le stesse litanie: “mi raccomando che ora sono in fatica, rischio di cadere… No, non prendermi così…  Qui sii energica, per favore…“. Spezzo una lancia: professioniste o meno, poverine ce la mettono tutta. È il corpo, che è veramente tanto complicato. Ma sapeste quanto stufa, di dover giustificare la mia patologia “tanto complicata”. Nell’ultima trasferta ho assistito spesso a due che si davano il cambio – una entrava in quell’istante in casa, e accorreva subito in bagno – mentre uscivo dalla doccia. La manovra l’abbiamo chiamata “pit stop”: velocissimamente una mi veste, mentre l’altra mi carica in carrozzina. Spesso le sento parlare di me, in terza persona, “corri, prendila così“. Io non partecipo non perché esclusa, attenzione: ma perché tramortita dalla fatica. In quei momenti mi guardo da fuori, le loro voci in sottofondo; e penso, chi l’avrebbe immaginato di arrivare fin qui. Il mio corpo non c’è più, espropriato. Il mio corpo è roba d’altri.

Alla sera, nei rari momenti attivi, in doccia o in camera da letto, nuda o quasi, chiedo a mio marito di lasciarmi sola. Lui sa perché. Devo ri-toccarmi. No, non quello che state pensando! Ho bisogno di passare a lungo le mie mani (le mie mani!) lungo il corpo, la schiena, il tronco, le gambe, i piedi, ovunque. E sospiro, di sollievo e beatitudine. Eccomi, ci sono tutta. Sono ancora io.