Su Laura, cerchi di stare tranquilla. Si ricordi che a oggi lei ha una sclerosi multipla remittente, non progressiva! Stiamo combattendo, ma per capirci… Mica con Muhammad Alì“. Anno 2013, le parole di speranza di un giovane specializzando. Ogni volta che ho pensato di scrivere un post sulla progressione, sapevo che avrei aperto con questa frase.

Invece la prima immagine che mi salta in mente ogni volta che penso al tema ‘progressione’, strano a dirsi, è il parcheggio della mia concessionaria auto, estate 2016, io da poco transitata nella forma progressiva, a bordo di un’auto in prova. Mi torna sempre in mente quel pomeriggio in quel parcheggio. Forse perché quel giorno, già col deambulatore e stanca di dover penare per infilarlo nella mia minicar – oltre che spaventata dal piede destro che non si spostava più sul freno – pensavo che sarebbero bastati un po’ di organizzazione, un po’ di risparmi, un po’ di determinazione, per affrontare bene la nuova fase di vita, il match con Muhammad Alì. Sarebbe bastato un cambio automatico, un’auto spaziosa per caricare. In realtà dentro di me lo sapevo che il cambio automatico preludeva ai comandi al volante, quando le gambe mi avrebbero dato forfait totale; e che il maggiore spazio della nuova auto avrebbe ospitato di lì a poco non più un deambulatore, ma una carrozzina. Però speravo, primo, che questi cambiamenti sarebbero arrivati ‘con calma’. Secondo, che si sarebbe trattato di una nuova fase di vita lineare, prevedibile, controllabile. Un match da giocarmi ad armi pari, insomma. Nulla di più illusorio.

Il cambio automatico me lo godetti poco, fare gli stop diventò da cardiopalma perchè la gamba destra mi abbandonò in toto, via quindi al lungo iter dei comandi al volante; sui sedili di dietro andò quasi subito la prima carrozzina, che dopo qualche prova di caricamento autonomo – ancora uscivo in piedi dal posto guida… – diventò pesante, troppo pesante, mentre io strisciavo sulla fiancata, quando uscivo, per non cadere; settimane a cercare uno di quei braccetti meccanici per caricarla, tra problemi di ingombro e tecnici, e divenne chiaro che io di lì non sarei più uscita da sola; dopo alcuni mesi a farmi caricare la carrozzina dai colleghi d’ufficio, stop: per la fatica sempre più acuta smisi di lavorare. Le uscite residue divennero sporadiche, dovendo farmi tre piani di scale a piedi (leggi post); via quindi alla ricerca di una casa accessibile, ascensore, rampa disabili, posto auto, ausili, stanze attrezzate. La carrozzina venne presto rimpiazzata da una superleggera in titanio di tasca mia, la guida speciale, causa fatica, venne rimpiazzata direttamente dalle assistenti. Tutto nel giro di pochi mesi. Forse capisco perché l’immagine simbolo della progressione per me sia quel lontano parcheggio, in quella lontana estate.

Spero di aver reso l’idea di quanto poco ‘calmi’ siano stati i cambiamenti e di quanto veloce, direi geometrica, sia stata l’accelerazione della disabilità. Come una palla di neve che rotola, rotola, si ingrossa fino a divenire presto valanga. Oggi quei ricordi sono già “vita precedente”, la mia vera progressione comincia da qui, quando è iniziato il ring quotidiano.

Un corpo a corpo a cui sono arrivata determinata e temprata da anni di ricadute, peggioramenti, farmaci, ospedali e cliniche, senza mai, un solo giorno, tralasciare il mio esercizio fisico: fosse una nuotata, una passeggiata contando i metri percorsi col Google maps, un pugno di ore con un ausilio più leggero per non abituarmi troppo, la libreria del corridoio di casa lungo cui mi appoggiavo per migliaia di passi avanti e indietro, il tappetino, le fisioterapie, la robotica, l’elettrostimolazione, i test clinici, esercizi, su esercizi, su esercizi. Avevo un solo difetto, come paziente: esageravo. Per non mollare mai, esageravo. E ne facevo le spese. Ma puntualmente, ricominciavo. Mica per esser brava nei ‘compiti a casa’, attenzione. Ma perché sentire il corpo muoversi ancora, seppur malamente, mi dava troppo sollievo. E così su quel ring io ci sono salita ben allenata. Mi chiedo come starei oggi, se mi fossi anche adagiata.

Oggi la mia giornata comincia con la richiesta di aiuto al mattino per essere scesa dal letto, portata in bagno, aiutata a far colazione, lavata e vestita, il tutto in 2 o 3 ore, accompagnata alle terapie o in una passeggiata, riportata di corsa prima che arrivi la fatica centrale quotidiana, aiutata a mangiare, messa a letto, alzata dal letto, portata ancora in bagno, messa in poltrona, lasciata libera un tre ore per uscite o letture, portata a cena, doccia, TV, e… Buonanotte sperando di non dover chiedere aiuto troppe volte. In mezzo, la giostra di cooperative, assistenti sociali, servizi domiciliari. Sembra un carcere raccontata così, vero? Eppure, in qualche modo, non lo è. Primo perché, parrà strano, io mi sento “normale”, qui, ora, come sono. L’adattamento umano fa miracoli (a parte dolori, momenti critici, lo stabilizzarsi di nuove fasi); e seppure ricordi nitidamente tutto dell’altra vita e di com’ero, oggi è come se fossi sempre stata così: ‘io sono io’, e a malapena realizzo di essere più bassa di mezzo metro dell’amico che incontro per strada. Secondo, perché in mezzo ai passaggi sempre uguali di una routine spietata, cerco sempre e disperatamente di infilare una variazione sul tema, un qualche movimento, un esercizio, un tentativo, un’alzata, una posizione diversa, un abbozzo di camminata, una manciata di vasche arrancate, un “muoviti Laura, forte e incazzata, muoviti“. Tutti i giorni, come un bravo soldato.

Che cerchi pure di tenere la mente attiva è ovvio (e non facile, con poche ore al giorno libere dalla fatica); la battaglia vera però, sempre più in retrovia – ogni ennesimo movimento perduto, ogni gesto scomparso, ogni parte del corpo che non sento più, ogni muscolo che non si attiva più, ogni sintomo diverso oltre alla paralisi, è un pezzetto di morte – è sul corpo. Lì gioco in difesa, lì rincorro i residui di autonomia come un bersaglio mobile: sempre più in là, sempre più in là. Nel frattempo cambio, e cambio inesorabilmente. Nel frattempo, mi abituo. A volte crollo, poi mi rialzo. La malattia va avanti, e io vado avanti. Andrà ancora avanti, e io non potrò non cercare di andare avanti.

È tardi, sono le 23, devo smettere di scrivere (solo la sera ho buona, per muovere le mani) e mettermi sul deambulatore. Vediamo di portare a casa i primi passi della giornata.

 

(immagine: <a href=”https://it.freepik.com/foto/sport“>Sport foto creata da freepik – it.freepik.com</a>)