Di recente con mio marito, chiacchierando di un corso di sceneggiatura che ha frequentato, si parlava del turning point, che in una storia sarebbe il punto di svolta, l’evento che cambia tutto. Quello dopo il quale niente sarà più uguale a sé stesso, né la vita, né noi stessi. In fondo anche la nostra vita è una storia. E io il mio turning point l’ho avuto subito chiaro davanti, mentre Stefano mi parlava. 

Il mio turning point è stato quando la neurologa a fine 2015 mi disse “la sua sclerosi multipla è diventata progressiva“. Dopo 20 anni di malattia, quello è stato il turning point della mia vita di malata. Da allora niente è più stato lo stesso. La mia prima vita è finita allora e ne è cominciata un’altra con un’altra malattia: difficile da credere anche per chi la sclerosi multipla un po’ la conosce. Io stessa allora non ci volevo credere. Lo realizzai ben presto, invece, cosa avrebbe significato per una malattia neurodegenerativa fare spazio a una forma progressiva, che non si ferma. Quando ai disturbi occasionali, alle ricadute, ai farmaci – pure aggressivi, ma ci si impara a convivere – sono seguiti il bastone, il deambulatore e poi la carrozzina in soli 10 mesi. Dopo 20 anni, perso il cammino in 10 mesi.

E da donna giovane, indipendente, attiva, sono diventata un soggetto da assistere.

Perciò oggi questo blog non è tanto sulla sclerosi multipla, quanto sulla sclerosi multipla progressiva. E non mi azzardo né aspiro a dare spiegazioni sulla SM in generale, su cui esistono già risorse complete, autorevoli e affidabili.

Ci saranno invece pezzi di vita, episodi, frammenti, per raccontare che cosa significa perdere l’autonomia anche nei più piccoli gesti quotidiani, essere monopolizzata dal corpo e dai suoi sintomi. Non avere più in testa lavoro, carriera, progetti, matrimonio, maternità, o più banalmente i gesti che fanno di tutti noi delle persone autonome: fare un viaggio o pulire casa o uscire un attimo al bisogno, o alzarsi e andare da qualche parte, o aggirare al volo un ostacolo, o cucinarsi un piatto, lavarsi e vestirsi, insomma qualsiasi piccola azione che per chiunque è scontata, automatica, e per me va programmata, dilazionata, concordata fra marito-caregiver e badanti.

Non avere più nel proprio orizzonte l’autorealizzazione, ma solo di ‘sfangarla a fine giornata’ tra la fatica fagocitante – non la ‘fatica’ comune, ma un sintomo clinico definito e totalizzante – i dolori, la paralisi, la spasticità e gli spasmi, l’incontinenza, la poltrona/letto, il piccolo spazio domestico che diventa una prigione quando non si riesce più a uscire da soli, o magari svolta per un ausilio messo lì, che fa spostare qualche metro in più; l’ospedale, la clinica, i terapisti, gli infermieri che diventano la seconda famiglia (se non la prima, come frequenza e consuetudine). Ci sono due vite e due malattie nella mia storia e ancora non riesco nè a metterle insieme, né a mettere a fuoco che la stessa Laura che viveva e faceva tutto, prima, sono io.

Ma quando mi riaffaccio alla cosiddetta vita ‘normale’ di una volta – stando in mezzo alla gente, sentendone i discorsi, vedendo le cose che fanno senza esser coscienti di potersi muovere, di stare in piedi, di far seguire a un pensiero il gesto, perché il loro corpo risponde agli ordini, non fa male, non si esaurisce subito, non cade o si trascina; senza affaticarsi solo perché hanno parlato mezz’ora – proprio quando rivedo la ‘normalità’ (un’uscita, un reincontro, una qualche vacanza) mi ri-casca addosso come una valanga tutta l’attuale non-vita. E mi rendo conto.

Dall’altra parte, da disabile non autosufficiente anche le piccole esperienze si amplificano a mille: e una passeggiata nella via sotto casa scarrozzata da un’amica diventa una gita in mezzo al verde; quattro passi in centro storico, una fuga dal quotidiano; una vacanza al mare dopo ricerca maniacale di strutture accessibili, gli orari da bimba e la carrozzina da spiaggia, o un giro in montagna col propulsore elettrico per spingermi, diventano un sogno, e che vadano a quel paese la fatica e i dolori; essere utile a qualcuno, una iniezione potente di energia; una reunion fra vecchie amiche, un cinema o un teatro accessibile, qualcosa di così intenso da commuovermi. Mi guardo intorno felice e incredula, quando vado al cinema o a teatro – devo essere molto a posto fisicamente, per poter essere lì – guardo le persone, e penso: sono davvero qui, io?

E allora questo blog diventa uno strumento di sopravvivenza, per ricordare tutti gli scampoli di vita possibile che ci sono ancora. Diventa uno strumento di riflessione su quanto sia importante essere messi nella condizione di maggiore autonomia possibile e di sollievo dalla malattia: la vita indipendente per chi può, l’assistenza e le cure, il welfare, l’accessibilità, gli altri, la cultura e i pregiudizi, la possibilità di fare ed esistere.

Questo è il blog: uno strumento di sopravvivenza, di confronto ed empatia e spero, alla fine, una seconda vita possibile.