Il fiore della foto non è messo a caso. Appartiene a un episodio reale che per me simboleggia l’empatia. L’empatia spontanea, quella che spunta dalle persone inaspettate, che non ti conoscono, non sono già legate a te – non familiari né amici – né ti assistono. La gente comune insomma. Sarebbe facile fare un post sulle persone già vicine: l’empatia che intendo io è quel regalo istantaneo che ti arriva da qualcuno en passantSenza “poverina”, senza “pat pat”, senza sentirsi in dovere di facilitarti “perché sei disabile”, senza stare ogni volta a chiederti, “che hai? Ma le cure? La ricerca?”, eccetera. Immaginate un solo momento in cui una persona smette di ‘vederti’ e ti guarda. E con un piccolo gesto ti dice “oh, guarda che ti capisco. Non ne so niente di ‘sta roba, ma ti capisco”.

Correva il 2017, anno in cui la carrozzina diventava una realtà fissa, il primo in cui io e Ste facevamo i conti col turismo accessibile. Con tutti gli annessi e connessi: accessibilità solo parziale, lo sguardo pietistico di molti (la carrozzina, secondo voi, in quale secolo l’avranno inventata? Perché ogni volta mi stupisce lo stupore). Val di Non, colazione sul Lago Smeraldo. Arriva la cameriera e in tutta fretta – senza filarci di pezza – prende l’ordinazione e corre via. I tavolini intorno si svuotano, Ste va per foto, io sto lì in beata solitudine. All’improvviso da dietro ricompare la cameriera. Senza dire nulla. Mi mette un fiore appena colto sul tavolino, e sgattaiola via. Senza dire ‘a’, senza volere un ‘grazie’, scompare. Solo un pensiero, e ciao.

Che bella l’empatia immediata, senza solennità, senza il ‘sorriso politicamente corretto’ (perché molti mi sorridono oggi, quando passo? Magari sono antipatica o rompicoglioni), senza giri di parole. E se c’è bisogno, l’aiuto veloce senza ‘pippe’. Quel fiore lì ci ha ‘scaldato’, lo abbiamo tenuto ed è lì nella foto. L’empatia spunta più facilmente fra donne, devo dirlo. Ma non solo. Enrico e Anna ne sono un esempio. Volevo dedicargli tutto il post a quella coppia, amici ora, ma perfetti estranei all’epoca. L’avrei intitolato ‘il coraggio e l’empatia’.

L’empatia di Anna, che conoscendoci appena mi chiamò e pretese di venire con me un giorno d’estate nel 2016, quando – ancora con deambulatore – mi ostinavo ad andare in piscina ma non ce la facevo più sulla rampa d’ingresso, lunga e in salita; il coraggio di Enrico, che si rimboccò le maniche e mi tenne a braccetto, metro dopo metro, io che arrancavo tipo Via Crucis sulla rampa, lui a fianco; fino a esclamare “oh, al diavolo!” e a caricarmici sopra, al deambulatore, a dispetto delle norme d’impiego dell’ausilio, per portarmi su. A bordo vasca Anna mi convinse ad accettare una carrozzina in dotazione; e con tutte le armi della persuasione mi convinse a farmici pure riportare indietro, giù per la stessa rampa (“Dai, è solo per un attimo, non ti sentiresti meglio, poi?” Dovete capire quanto è granitico il rifiuto degli ausili, all’inizio). Non si accontentano, mi accompagnano fino a casa su per i sessanta fottuti scalini. Soprattutto non drammatizzano nè si spaventano – lei pure con una SM, lieve – di un possibile scenario futuro.

Sempre in piscina (teatro per me di tanti episodi, vedi io, il nuoto e la sclerosi multipla) ancora autonoma ma col bastone, siamo al 2015, incontrai Alessia, vecchia conoscenza professionale, sotto la doccia. Lo ricordo bene quel momento mentre parlavamo e ci sciacquavamo, lei contenta e ignara, io già ansiosa (avevo capito che uscire dalla doccia da sola sarebbe stato arduo). Quel passaggio cruciale, quando capisci di non poter più fare a meno di chiedere aiuto e decidi di buttar là la richiesta con finta nonchalance. “Senti, mi sa che ho bisogno di aiuto”. “Scherzi! Ci mancherebbe”. Senza colpo ferire. Una cosa naturale. Offrire aiuto non è gran cosa, chiederlo, è scalare una montagna. Ma lei neppure ci fece caso, quando ritornammo alle panche dello spogliatoio tenendoci a braccetto e barcollando come due ubriache (o meglio io che barcollavo e lei che mi sorreggeva). Negli anni ho capito che l’empatia spunta più facilmente – a parte i casi spontanei, vedi la donna col fiore in Trentino – quando ci si decide a chiedere aiuto.

A volte l’empatia spunta perché l’altra persona ha da condividere con te molto più di quanto appaia. Sempre con l’amato/odiato deambulatore, sempre nel quartiere storico di Monteluce: spostarsi lì coi 12 kg di ausilio da togliere e rimettere in auto stava diventando tosto. Misa, collega giornalista vicina di quartiere, per anni solo chiacchiere professionali e frettolose fra noi, quando c’incrociavamo aveva uno ‘scatto felino’ nel correre e levarmi l’impiccio: “Dove lo carico? Che bello, oggi ti aiuto io!”. Pareva che per lei incontrarci fosse una fortuna. Una volta glielo chiesi: come fai a essere così, non dico sensibile – non ho una tale sfiducia nel genere umano – ma così disinvolta? Non è facile con una persona disabile, se non sei abituato. “Forse, Laura” mi fa lei “è perché pure io, da un giorno all’altro, ho smesso di far parte del mondo dei ‘sani’ e ho varcato la soglia definitiva del ritrovarsi malati, anche se non lo vedi”. No che non lo avevo visto, Misa aveva scoperto di avere il lupus.

Un percorso comune di malattia lega come un filo invisibile incontri che da formali e sfuggenti che erano gettano il seme non solo per l’empatia, ma se dice fortuna per un’amicizia vera. Paola Emilia, altra giornalista, firma nota nei settori scienze e salute, scrittrice anche autobiografica con il suo “Cecità clandestina”. Non dovrei neppure conoscerla, è solo un caso che ci s’incroci a un convegno sulla medicina narrativa. Siamo entrambe relatrici ma io sono lì per caso, sono fuori dai giri. E invece a Paola Emilia basta sentirmi e leggermi al volo per accogliermi, chiedermi di me e della mia fatica centrale, spulciarmi in men che non si dica le ultimissime ricerche internazionali in tema (“non voglio stressarti però, eh”). Viviamo a 400 km di distanza ma ci mandiamo lunghi audio, ci leggiamo a vicenda, ci rispecchiamo e teniamo compagnia. E lei chiude i suoi tentativi discreti di aiuto, con un: “sappi che ti sei trovata un’amica testarda”. Come a dire, non ti lascio sola. Perfetta estranea, fino allora: ci siamo viste per pochissimo, ci rivedremo, se mai sarà, chissà quando.

Eppure, in quello come in tanti altri casi, non so neppure io perché – la persona, il momento, la situazione giusta? Chissà – quel fiore è spuntato.