Sul quotidiano web dell’Umbria, Umbria24, il direttore Ivano Porfiri mi ha chiesto, all’indomani dell’approvazione della legge sul testamento biologico, un parere come persona con disabilità. Va detto che l’opinione era in via amichevole, e che non mi sarei sognata di ‘spiegare’ alcunchè a nessuno. Anche perché il vero passo da compiere dopo una legge di civiltà fondamentale, sarebbe oggi la possibilità di porre fine alla propria vita per chi è in condizioni gravi. Non uso la parola ‘eutanasia legale’ non solo perché spaventa ma perché tecnicamente impropria (si parlerebbe semmai di suicidio assistito o morte assistita, vedi Exit Italia o Associazione Luca Coscioni).

Il testamento biologico l’avevo già firmato da un anno con l’associazione svizzera Exit. Sperando di non doverne fare uso. Un po’ straniante compilarlo, devi comunque posare la mente, pure in modo pratico e veloce, sulla morte. Poi ho spedito e mi son detta, benissimo, non ne farò mai uso. Ma se ci fosse bisogno, sono a posto. Uno di quei diritti-ombrello. Lo porti perché sai che porta sfiga non portarlo e pioverebbe. Se lo porti, sai che non pioverà. Seriamente: dovremmo farlo tutti quanti. Ho convinto senza problemi mio marito Stefano. Altri no. Ci si rapporta male con l’idea della morte, non ci si pensa o non ci si vuole pensare.

L’eutanasia legale è il prossimo passo: qui più che mai, visto che ho una sclerosi multipla progressiva, spero che potrò permettermi di non voler usare mai un diritto che conto ci sarà.

Guardo le interviste fatte a Dj Fabo, a Davide Trentini che aveva la SM, a Welby e penso, accidenti, io ho ancora tantissimo, dalla mia parte. Mi rendo conto di quanto la vita sia tutto proprio ascoltando loro. Questo per rassicurare chi regolarmente attacca (o si difende?) con luoghi comuni: “sei depressa”, “ti stai buttando giù”. Disclaimer per gli stessi: no, non sono depressa; no, non mi sto buttando giù; no, non sto affatto mollando. Ogni sabato, cascasse il mondo, la mia assistente domiciliare mi scarrozza in piscina fino a bordo vasca, dove un sollevatore mi permette di entrare e uscire, e dove le mie sei (6) vasche, gambe rigide come stecche d’acciaio causa spasticità, mi fanno già sentire Phelps. È Ilaria che mi infila cuffia e occhialini, perché non muovo bene le mani e non sto dritta col busto, mi tira fuori dopo, mi asciuga e veste modalità sacco di patate, ma ormai le endorfine corrono, io sono viva. Pagherò questo essermi sentita viva con dolori muscolari e per due giorni, ma sono stata viva per 20 minuti! Ho sciato sul Monte Bianco, con istruttori e sci adattati per disabili, ho percorso la Val Di Non d’estate con un motorino elettrico attaccato alla carrozzina. Non mi sento una che si arrende.

Poi però c’è la vita quotidiana. Dopo 15 anni di malattia ha preso una piega ‘davvero’ progressiva. Le visite mediche ogni tot mesi dicono che la disabilità va avanti, ma non c’è bisogno di quelle: basta sentirmi nel corpo i movimenti che diminuiscono, i 15 passi in piedi che poi diventano 10, 8, 4, o stare in piedi 20 secondi al giorno aggrappati da qualche parte giusto per alleviare il mal di schiena; i dolori posturali e muscolari, perché stare in carrozzina non è innocuo; gli spasmi – la spasticità è un fenomeno bastardo: immaginate di essere caricati in auto dalla vostra assistente, gambe lunghe tese che lei non ce la fa a piegare… sempre causa spasticità, un’ora per fare la doccia assistiti; a letto; in poltrona; sulla sedia, magari movimentati da altri (mio marito non è solo un caregiver: è un caterpillar). Una sponda ospedaliera sul letto mi aiuta a girarmi da supina a sul fianco, perché non è scontato voltarmi, spostare bacino o gambe per leggere un libro. Immaginate che in tutto questo ci sia l’incontinenza cronica che vorrebbe che vi alzaste ogni 30 minuti, ma le gambe non ne vogliono sapere. Fare il cambio di patente per guidare ogni tanto? Fatto. Procurarsi una carrozzina superleggera davvero leggera, anche a spese vostre? Fatto. Assumere una seconda assistente oltre alla prima, perché le ore settimanali non bastano? Fatto. Riabilitarsi fino a essere stremati dalla fatica? Fatto. Ostinarsi, informarsi, essere comunque attivi, condividere, pensare che per almeno 20 minuti al giorno (cioè la doccia serale aiutata) mi sentirò bene nel mio corpo? Fatto. Poi c’è la ‘fatica ‘centrale’, esclusiva della SM, diversa dalla fatica che sperimentano tutti: ogni giorno e tutti i giorni, nelle ore centrali per 5 o 6 ore, stare a occhi chiusi senza parlare o sentire voci o muoversi (in quei momenti il segnale pare ‘interrotto’, difficile anche digitare sulla tastiera del cellulare): si sta a letto, avvolti da una specie di annebbiamento (la trasmissione degli impulsi nervosi rallentata). Ho superato, quando sono in fatica centrale, livelli di dipendenza che non avrei accettato solo 2 anni fa (e che a ben guardarli fanno ridere): bere con la cannuccia, l’assistente che mi sminuzza il cibo, il cucchiaio al posto della forchetta, il pranzo in poltrona, ritrovarmi caduta a terra senza essermi fatta male, solo sciolta sul pavimento, tipo gli orologi di Dalì. Quando sono in fatica non ci sono più i movimenti delle mani: le assistenti mi aprono il portafoglio e gestiscono soldi e bancomat; ogni mio gesto – in stanza, in casa, fuori nelle poche uscite – è mediato da altre gambe, e altre braccia. Non c’è farsi il guardaroba, cucinare, lavorare. Poi magicamente, di sera, la fatica si dissipa, e non che io ricammini, ma riacquisto un sacco di funzioni.

Magicamente, questa è la bella notizia, la SM lascia margini di autonomia insperati anche nelle forme gravi. L’altra bella notizia è che la mente si abitua a tutto: guardo le persone che camminano e non riesco a ricordarmi com’ero io quando camminavo, stavo in piedi, addirittura facevo la giornalista. Veramente non facevo caso allo stare in piedi? Incredibile come la mente si abitui. Io mi sento davvero una nuotatrice, quando faccio le mie 6 vasche, pensare che una volta mi allenavo. La mente si abitua.

Ad abituarsi meno è il corpo. Anche qui è giusto essere resilienti, ma le cose si complicano quando si superano certi livelli. Ci sono malattie o disabilità, situazioni che non lasciano scampo, non lasciano lo spazio insperato di autonomia, il “momento magico”. Di chi è se non di quelle persone, il diritto di decidere fino a quando vale la pena tenere duro? Io spero di rientrare sempre in quella fetta fortunata di persone che questo diritto, alla fine, scelgono di lasciarlo là. C’è, ma può aspettare. C’è troppo ancora nella vita da fare e vedere. Non vogliamo usarlo questo diritto. Ma ci deve essere.
Almeno, dovesse mettersi a piovere, siamo premuniti.

 

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Il mio intervento su Umbria24 è arrivato fino alla redazione di “Quante Storie” di Corrado Augias su Rai3, dove nella puntata del 14 febbraio (www.raiplay.it) – che ha presentato il libro del sociologo Marzio Barbagli “Alla fine della vita” – si è voluta ascoltare anche la mia testimonianza.

(Nella foto, con Beppino Englaro durante l’edizione 2017 del Festival del giornalismo).