Lo scorso 25 settembre è tornata di colpo alla ribalta una questione serissima, su cui torno a scrivere perché stanca di leggere panzane (anche in buona fede: il qualunquismo e la terminologia approssimativa di molti media non aiutano la platea dei profani. Un po’ come la querelle di mesi fa sulla cosiddetta, mi viene da ridere, ‘cannabis light’).

Con la sentenza della Corte Costituzionale che ha depenalizzato l’aiuto a morire a Dj Fabo di Marco Cappato – sorretta da un buon pressing politico, di opinione e delle associazioni per le libertà civili – si è fatto un passo avanti storico verso una legge sul cosiddetto “suicidio assistito” o – meglio – “morte assistita” / “morte tecnicamente assistita” (non amo il termine ‘suicidio’ perché evoca un’idea di vigliaccheria: e Dj Fabo, Luca Coscioni, Piergiorgio Welby erano tutt’altro che vigliacchi). Per chi ha voglia di capirci qualcosa: leggetevi il libro-testimonianza “Credere, disobbedire, combattere” di Marco Cappato. Leggetevelo se possibile senza farne una questione di appartenenza politica, la questione travalica.

Nella prospettiva di una legge – chissà quando, e chissà quale sarà l’impianto del testo di legge – che dopo il biotestamento (leggi mio post) oggi regolamenti una volta per tutte anche questa materia spinosa, non ci sarà NESSUNA “eutanasia” né nessun medico sarà costretto a praticare una ‘dolce morte’ (l’idea è di un livello tale di ignoranza e bigotteria che non pensare alla malafede di chi la spara è dura). Nelle procedure attuali in vigore, con la morte assistita la persona che riceve il (così definito, tecnicamente) ‘semaforo verde’ a concludere la propria vita – per far ciò deve essere accertata la “prognosi infausta”, prerequisito clinico affatto scontato – è messa nelle condizioni, ANCHE SE PARALIZZATA, di azionare un interruttore per autosomministrarsi il farmaco letale. FINO ALL’ULTIMO ISTANTE, PUÒ CAMBIARE IDEA. A garanzia che la persona non sia plagiata o condizionata da vicini/familiari, può registrare le sue ultime volontà in video. Questa perlomeno la prassi in Svizzera, leggetevi le risorse in merito di Dignitas, associazione svizzera.

Senza una legge, attesa da tempo e caldeggiata nella sentenza della Corte, le persone continueranno: a tentare il suicidio ‘quello vero’ e clandestino, chi non è paralizzato e può farlo; a sperare di poter essere accompagnati in Svizzera (oltre a tutte le difficoltà, fino a oggi l’accompagnamento alla morte assistita si qualificava come reato, e non è che tutti noi avessimo un parlamentare vicino, mobilitato e disposto a far casino); oppure a soffrire come cani, giorno per giorno, minuto per minuto. Secondo voi erano scoraggiati o ‘afflitti’ o non avevano rispetto per la vita, Dj Fabo, Luca Coscioni, Piergiorgio Welby, Davide Trentini? NO. Cappato li racconta come lucidi, sereni, estremamente determinati. Perché quasi liberi. Addirittura Welby, durante l’ultimo viaggio – racconta Cappato nel suo libro – faceva battute per sdrammatizzare coi suoi accompagnatori commossi.

Porca miseria, io come l’ho chiamata questa pagina e relativo blog? LA VITA POSSIBILE. Vi sembra, per chi mi segue e legge, che non ami o rispetti la vita o sia “depressa”?
Eppure al di là della “narrazione figa” sulla malattia/disabilità, lo storytelling che tanto seduce e tranquillizza: resilienza, sorriso indomabile, no-limits (grande stronzata), coppia romantica (venite però a vedere la quotidianità mia e di Ste, quella pesante), la malattia avanza. Non è pessimismo e non cerco buffetti sulla guancia, dannazione! Quando uso il termine ‘progressione’, qualche lettore reagisce, “dai, non parlare così”. Come se fosse uno spauracchio emotivo (per me? O forse per loro?). Come se le persone avessero paura, di certi temi, e li rigettassero.

Eppure la progressione nelle patologie neurodegenerative – e non solo – è oggettività clinica, parametro osservabile, misurabile. Ho 45 anni: non riesco più a fare le cose che facevo 6 mesi fa, così come 6 mesi fa non riuscivo a compiere i gesti che potevo permettermi 6 mesi prima. Dove con ‘gesti’ non intendo scalare montagne, ma lavarmi e vestirmi da sola, alzarmi dal letto e rimettermici, girarmi sul fianco destro quando a letto ci sto (motivo di cadute quasi ogni giorno), fare i passaggi e i trasferimenti al e dal wc, mangiare (non solo cucinarmi, ricordo preistorico: spesso portarmi il boccone alla bocca), grattarmi, chinarmi, raccogliere un oggetto. Non quell’una o due volte che butta male, attenzione: tutti i giorni, e tutto il giorno, in una routine sempre più ininterrotta, sfiancante, a volte pericolosa. Son fortunata perché finora l’ho scampata al vero fattore che penso renda ogni minuto insopportabile, il dolore. Il dolore centrale, di qualsiasi natura (neuropatico, oncologico o altri): quello sì che porta lucidamente a voler morire. Così come apprezzo le poche ore della giornata libere dalla fatica, dai dolori vari e dalla perdita funzionale, ore in cui posso ‘muovermi’, comunicare, interagire, essere attiva. Una roba immensa.

Come starò tra 5, 10, 15 anni? Bene cioè non troppo peggiorata, spero. E se così non fosse? Io voglio vivere: ma voglio pure sapere di POTER morire, se mai le cose precipitassero. Quanti oggi come me, prima di me e già MOLTO peggio di me? Quanti già oggi si organizzano come disperati, per farlo clandestinamente?

Ma “clandestinamente” non turba le coscienze. Consente di non sapere, di girarsi dall’altra parte. Di postare commenti e cuoricini sui social, di essere rassicurati dall’immaginario eroico del ‘disabile-guru’. Senza dover pensare a com’è realmente la vita di quella persona, come può stare momento per momento, in uno stato di progressione.
Ce la facciamo a uscire dai soliti, maledettissimi luoghi comuni? A smetterla di voltarci dall’altra parte?