Quando intervistano mio marito Stefano su che cosa significhi essere caregiver e in particolare, che cosa abbia significato e stia significando in questi mesi di pandemia, lui risponde serafico. “Guardate che per me, per noi, non c’è alcuna differenza tra un prima e un dopo. Fase uno, due, tre? Roba astratta. Noi siamo in quarantena a vita“. In genere hanno il coraggio, quei giornalisti attenti, di riportare il suo racconto senza edulcorarlo. Quello che Stefano, con amore e rispetto, evita di dire, è che più che una quarantena questa vita è un carcere. E il vero carcerato non sono io con la malattia, è luiMi decido dopo molto a scrivere di Stefano perché è un tema lacerante, e ho sempre temuto ‘come sarei arrivata’ a fine post. Ma stamattina mi sono decisa.

Mi sono decisa dopo l’ennesima sua notte insonne. Dopo gli strappi muscolari per sollevarmi, dopo le infiammazioni ai tendini per spostarmi, girarmi, piegarmi. E sarebbe domenica, oggi! Ma per noi non esistono domeniche. Per noi non esistono feriali o weekend. Per lui, non esistono turni di riposo. Le mie due alzate notturne causa pipí non sono più autonome da mesi, nonostante riabilitazione, caparbietà, manovre apprese per i trasferimenti. E ogni benedetta volta, lo devo svegliare e chiamare. Dalla sua risposta “… Arrivo.”, da quanto è immediata e di voce già fresca, capisco quanto stesse dormendo o meno. Confesso, quando lo sento già sveglio sono egoisticamente ‘contenta’: almeno non sono stata io a svegliarlo. Quando però lo sento ancora sveglio alla seconda alzata – per me è passato un secondo sonno; per lui, magari, tre ore di veglia – mi sento morire. Ogni singola notte. Disclaimer su ogni possibile obiezione dei lettori (perché non usi il pannolone così stai a letto, perché non metti il catetere fisso, perché non ti giri dall’altra parte e non ci pensi, etc.). Sono tutti metodi ampiamente provati e non adatti al mio caso di vescica neurologica. Stendo un velo sul capitolo, è solo per far capire la crudeltà di questa malattia, in cui le gambe sono paralizzate ma la vescica lo è tutt’altro.

Stamattina insomma mi arriva con i consueti occhi pesti, più nuove infiammazioni ai muscoli. Hai dormito bene amore? Tu piuttosto, Stefano, come hai dormito! Non me lo chiedere. Senti, ma vattene via due, tre notti… Chiamo una delle assistenti a nero, ti prendi un hotel, te lo pago io, o vai da tuo fratello o da un amico…Ma dove vado. E non posso neanche prendere un farmaco, se no non ti sentirei quando mi chiami. Mi spiace tanto. Basta eh, non ricominciamo, già sto male. Magari nel pomeriggio recuperi… Anche nel pomeriggio devo aiutarti a letto, quando sei in fatica, ricordi? Questa è una nostra conversazione-tipo mattutina.

Poi partiamo con la routine giornaliera. Fissa, immutabile, incessante. Colazione, aiutami chè ho le mani e le braccia ancora spastiche, se no rovescio tutto. Hai preso la cannabis? Te la porto io. Okay, ora devo andare al bagno, di corsa, immediatamente…Arrivo! Ora lasciami da sola. Poi quando inizio il bidet ti chiamo (al mattino ho le gambe serrate dalla spasticità e pure con la doccina-bidet non sono autonoma, ndr). Bidet assistito, alzata in piedi, mi alzo, no non mi alzo, due passi, quattro, okay sto già al limite, puoi vestirmi? Vestizione. Chi viene, delle tue ragazze (solo se siamo in un feriale, ndr)? Eleonora, ti libero per tre ore. Bene, allora approfitto per quell’appuntamento di lavoro, o per fare la spesa, o il bucato. Già perché Stefano, oltre che caregiver, è anche amministratore di tutte le faccende domestiche, e la sapete una cosa? Se gli libero una di queste incombenze, magari con l’assistente privata (alcune ore extra a settimana con un bando INPS) si imbestialisce. All’inizio non capivo. Poi ho capito. Sono i suoi attimi di libertà da me.

Pomeriggio assistito, sempre, in ogni singolo gesto (si è allestito una regia in casa per non lasciarmi, vedi foto), sera, un film, quattro risate, due coccole, la complicità per fortuna immutata, e

questo ci salva. Ma questa routine è 24 ore al dì, per 7 giorni, per 12 mesi. Non esiste vacanza, non esiste pausa: se non, paradossalmente, nelle sue trasferte di lavoro – oggi scomparse, causa pandemia – trasferte che sono comunque causa di stress organizzativo per reperire tutte le assistenti che servono, o ufficiali, o in nero (il nero come ho già scritto ci salva la vita, ma nessuno Stato lo rimborsa. E no, nessun familiare anziano, nessuna amica può gestirmi. Il rischio probabile sarebbe di finire sul pavimento e farmi male).

Tutto questo è un banale scorcio di una ordinaria domenica mattina. Ma può essere anche lunedì, martedì. Io sono pensionata da anni, lui tuttora lavora (lavorerebbe: è produttore video e video maker, lascio immaginare l’oggi). È difficile mettersi nei panni di una persona disabile grave per la continuità h24 della sua condizione. Ciò che è ancora più difficile, però, è mettersi nei panni di un caregiver. Sono loro, i veri fantasmi. Sono fantasmi, ma devono esserci sempre. Stefano è libero professionista e non ha la 104, e per fortuna, ci capita di commentare: che ci faremmo con qualche giorno al mese di permesso, con lui in ufficio e vincolato da un orario? Quanto può farci incazzare quindi il discorso del premier di turno, quando annuncia “saremo vicini alle famiglie dei disabili, cioè aumenteremo i giorni di 104“? Quanta ignoranza, o menefreghismo, dietro questi proclami? (e quanta invidia malcelata in chi ti dice, ‘beato te che hai la 104?‘). Dietro le fattispecie arcaiche di leggi quasi trentennali c’è una realtà diversa, feroce. Si chiama “bisogno di assistenza continua”, migliaia di coppie o famiglie la provano sulla propria pelle, sostituendosi allo Stato e pagando un prezzo in termini di salute mentale. Possibile che venga ignorato, a tutti i livelli?

Mio marito non ha alcun sostegno al reddito, sgravio contributivo, o che dico, un banale – neppure troppo – supporto psicologico. E sì che ne avrebbe bisogno. Non sempre la nostra complicità è immutata. Logorio, discussioni, toni alterati, lasciami almeno mezz’ora, lacrime (mie), sforzi supremi per mantenere il sangue freddo (suoi). Poi, di nuovo, tutto si allenta e riapprodiamo a quelle isole di amore e relax. Ma sono momenti. Dopodiché si ricomincia, il giorno e la notte. Ultimamente a Ste è capitato di svegliarsi da solo nel cuore della notte, col batticuore. Entra di soprassalto in camera, mi sveglia. Amore, gridavi aiuto?… Dormivi Ste, era un incubo, torna a letto.

I momenti di “lucida disperazione”di cui già parlai, quelli in cui spero di poter morire, sono quelli in cui non esiste un attimo di tregua, in cui le cose pesano ora per ora e progrediscono, in cui vedo che son diventata la sua carceriera: e non solo non c’è sostegno, ma neppure uno straccio di riconoscimento legale. Non fermerebbe l’avanzare della malattia, certo, ma aiuterebbe a non fare due malati da uno solo.

Come mi dice spesso Ste, apparentemente freddo e compassato, difronte ai miei scleri: “io devo restare razionale… Devo ‘allontanarmi’ un po’ da te. Se no, neanche ti servo. Se no, da un malato ne tiriamo fuori due“.